L’Atlas (nome d’arte di Jules Dedet Granel), inizia la sua carriera come writer negli anni ’90 ed è ampiamente riconosciuto come uno dei massimi esponti della urban art contemporanea.

Da premi esperienze mutua l’attenzione al tagging, ovvero l’arte e il gesto di scrivere il proprio nome nello spazio pubblico con modalità artistiche.
Un classico del writing, insomma, fondamento di un fare artistico finalizzato a definire una presenza, marcare un territorio, ma anche e soprattutto a ricercare uno stile lavorando sull’unità minima dell’espressione personale: la nominazione di sé.

L’Atlas (nome d’arte che deriva dal famoso titano greco Atlante) prende dal tagging proprio questi due aspetti: calligrafia e rappresentazione del sé.
La sua ricerca diventa quindi una ricerca sulla rappresentabilità dell’universo artistico personale, di come ci si possa rappresentare attraverso l’arte.
Inizia un processo complesso, che lo porta a viaggiare tra Marocco, Siria, Egitto e a ragionare intorno alla calligrafia, mescolando il suo stile con echi di matrice medio orientale e africana.

Nel corso degli anni la ricerca si evolve e le opere diventano un personale mix di arte astratta, concettuale, cinetica, optical e minimalista, in cui la matrice comune è la ricerca di un segno artistico capace di rappresentare la complessità dei significati personali dell’artista, attraverso composizioni comprensibili senza barriera culturale alcuna. Opere concepite per mettere in tensione i poli che si scontrano nella vita di un’opera d’arte (autore / opera / fruitore) nel contesto dello spazio pubblico, andando così a scalare l’ingaggio su una scala potenzialmente infinita, confrontandosi con tutte le complesse stratificazioni dei pubblici potenziali. In tal senso l’artista si connota come realmente popolare, non perché usa un “vernacolo” comprensibile alla massa, ma perché non cede alla tentazione di eleggere la propria opera a oggetto di sola valutazione “competente”. L’Atlas accetta e sfida del giudizio di massa proprio facendo irrompere la propria arte nello spazio del quotidiano: spazio ideale in cui testare gli esiti della sua ricerca.

Da questo punto di vista l’opera che svetta su Via Galeazzo Alessi 205, è una sintesi straordinaria di quanto sopra descritto: il nome dell’artista, calligrafato come un labirinto, in un potente monocromo monumentale, su una parete cieca esposta su una strada di un quartiere popolare.

Un’opera di grande potenza, che mescola diversi piani interpretativi, ma soprattutto riunisce le fila di un percorso artistico personalissimo. Il gesto del “tagging” – inteso come rappresentazione artistica dell’autore – viene portato alle estreme conseguenze. Il “nome” viene disarticolato calligraficamente in una composizione universalmente percettibile (il labirinto), composizione che diventa però a sua volta gioco e metafora della ricerca del senso dell’opera; che evidentemente non era solo la nominazione dell’artista (esito classico, invece, del tagging). Un gioco di specchi raffinato che fa esplodere l’opera e ingaggia un corpo a corpo con la percezione della comunità tutta, chiamata da un lato a confrontarsi nello spazio pubblico con questioni fondanti l’estetica occidentale (e non solo), dall’altro ad andare oltre il bianco, il segno, il nome, il muro, le proprie certezze, la propria comoda quotidianità.

La voce degli abitanti

“Onestamente non l’avevo mai vista prima. Di prima impressione mette un po’ d’ansia perché è un labirinto. Poi però c’è il bianco e quindi va bene e spicca sul muro, il disegno esce fuori bene. Lo descriverei come una forma rettangolare in cui predomina il colore bianco, dove le forme sono linee parallele che formano un labirinto, all’interno del quale si può intravedere la scritta Atlas. E per certi versi è come se fosse Tor Pignattara, perché sembra un labirinto questo luogo”.
Andrea, abita nel quartiere

“Non è che ci capisco molto di arte, prima di tutto! Comunque sì, mi piace. È bello come forma. Forse poco comprensibile” – gli viene fatto notare il nome dell’artista celato nel labirinto – “Ahhhh adesso lo vedo. Fico. Ma me mette l’ansia [ride – n.d.r.]. Vedere un nome dentro un labirinto fa pensare che lui se vede così o peggio ce se vede perso dentro. Così diventa anche più profonda. In fondo tutti siamo persi dentro qualcosa, no? Pure lei. Pure io. O magari lui s’era solo perso dentro Tor Pignattara e l’ha vista come un labirinto. Perché un po’ è così. ”
Michele, abita nel quartiere

“A me non piace molto. Rispetto a quello davanti [Hostia, di Nicola Verlato – n.d.r.] non c’è paragone. Questo pare un disegno fatto da un bambino, non se capisce. Certo è un labirinto, questo è chiaro. Però che vor di? Che la vita è un labirinto? Che il quartiere è un labirinto? Oppure ha fatto un labirinto così, tanto per farlo? Però è ordinato. Nun da fastidio.”
Giordano, lavora nel quartiere

“Se devo essere onesto a me piace di più di quello di fronte [Hostia, di Nicola Verlato – n.d.r.]. Almeno qui si vede che c’è il collegamento con la storia della Street Art: è un tag, pure fico. L’altro è decorazione. Qui ci vedo ricerca. E pure come simbolo è potente: l’artista che è un labirinto, l’uomo è un labirinto, l’esistenza è un labirinto. Un bel pezzo”
Stefania, abita nel quartiere

“È un labirinto senza soluzione. Mi fa pensare a cose complicate” – le viene fatto notare il nome dell’artista celato nel labirinto – “Bello! Non l’avevo visto. Ma è il suo nome?” – confermiamo – “Allora è triste: perché mi fa pensare a una persona che si è persa dentro un labirinto. Bisognerebbe dargli le istruzioni per liberarlo”.
Studentessa della Scuola Primaria Carlo Pisacane, abita nel quartiere

“Non mi piace. Non significa niente. È un disegno su un muro” – le viene fatto notare il nome dell’artista celato nel labirinto – “Sì, è sfizioso. Ma a che serve? A me piacciono sti disegni, sia chiaro, però se deve capì bene quello che dicono. Mo ce n’è uno a Tor Pignattara tutto verde e rosa che è un macello [Il Tempio delle Culture Migranti – n.d.r.], non se capisce niente. Quello davanti invece è tutto bello, coi pesci, l’acqua [Canzone per una sirena – n.d.r.]. Pure quello a via Cencelli [Millenials – n.d.r.] è bello con quelle statue che parono madonne. Ecco sti disegni se devono capì, devono esse belli, sennò non servono a niente”
Maura, abita nel quartiere

Produzione Galleria Wunderkammern
Curatore: Giuseppe Pizzuto
Anno: 2014
Photo: Wunderkammern ©Giorgio Coen Cagli

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